TAPPA 1: IL TABERNACOLO DEI BRAVI
Nel capitolo I de “I Promessi Sposi” Manzoni descrive il percorso di Don Abbondio verso casa.
Ci fa camminare lungo una strada dritta che a un certo punto si biforca: a destra si dirama la
stradicciola che conduce al Resegone, a sinistra quella che scende a valle, caratterizzata dalla
presenza di un muretto.
(Lettore: “Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla
sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio”
Alla congiunzione delle due vie oggetto della descrizione troviamo un tabernacolo raffigurante
figure serpeggianti, fiamme, anime del Purgatorio ed è proprio in questo punto che il curato
incontra i Bravi, evento che determina il nascere di tutta la storia.
(Lettore: I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un
tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta)
La stradicciola che percorre Don Abbondio si può identificare con una stradina a sinistra, che
sale dall’attuale rotonda in Viale Montegrappa verso il rione di Acquate.
Il tabernacolo menzionato da Manzoni si trova via Tonio e Gervaso: è stato ricostruito e non
ospita alcuna raffigurazione pittorica. E’ presente una targa che richiama il testo manzoniano.
TAPPA 2: LA CHIESA DI DON ABBONDIO
Pare siano due le Chiese riconducibili a Don Abbondio: la chiesa dei Santi Vitale e Valeria a
Olate e la Chiesa di San Giorgio ad Acquate
Nel capitolo VII la piazza della Chiesa diventa teatro della confusione nata dal tentativo del
matrimonio mancato tra Renzo e Lucia, quando i due promessi, con uno stratagemma, riescono
a entrare nella casa del curato intenzionati a proferire la formula che li avrebbe legati per
sempre: un tentativo andato a vuoto nel parapiglia generale, con un don Abbondio affacciato
alla finestra che chiede aiuto.
(Lettore: L’assediato (don Abbondio), vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì
una finestra che guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: – aiuto! aiuto! – Era il
più bel chiaro di luna; l’ombra della chiesa, e più in fuori l’ombra lunga ed acuta del campanile,
si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva
distinguere, quasi come di giorno)
La chiesa più vicina alla casa di Lucia è quella dei Santi Vitale e Valeria: le prime notizie
risalgono al 1400, anno in cui sappiamo per certo che esistesse una piccola chiesa dedicata ai
santi citati.
Nel 1427 venne edificato un piccolo campanile di forma quadrata; all’inizio del secolo
successivo le comunità di Olate e di Bonacina distrussero parte della chiesetta antica e ne
orientarono la facciata verso il centro di Lecco. La navata risale al 1700 e fu poi modificata
ancora nei primi decenni nel 1900. In generale, non ci sono tantissime notizie sulla storia di
questo luogo sacro, è certo che sia il risultato di elementi stilistici diversi.
TAPPA 3: LA CASA DI LUCIA
A Lecco si individuano due luoghi identificabili come“casa di Lucia” e si trovano entrambi nei
rioni di Olate e Acquate.
L’architettura è semplice e tipica del territorio lecchese: un cortile, un ballatoio e scale di legno
che conducono in un edificio lineare a due piani
Manzoni, con le sue parole, ci porta in questa casetta dal piccolo cortile e qui troviamo Renzo
che si avvicina alla casa della futura sposa, come possiamo leggere nel capitolo II del romanzo
(Lettore: Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch’era nel mezzo del villaggio,
e, attraversatolo, s’avviò a quella di Lucia, ch’era in fondo, anzi un po’ fuori. Aveva quella
casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino.
Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzio che veniva da una stanza di sopra.
S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia. (…) Una
fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: – lo sposo! lo sposo! )
Questo stralcio fa probabilmente riferimento alla presunta casa di Lucia ad Olate, attualmente
residenza privata e non visitabile; vicina alla chiesa di don Abbondio in Acquate si trova invece
la tradizionale casa di Lucia da cui si possono vedere lo zucco su cui sorgeva il Palazzotto di
Don Rodrigo.
TAPPA 4: PESCARENICO E IL CONVENTO DI FRA’ CRISTOFORO
La località che viene indicata precisamente dal Manzoni nel capitolo IV è Pescarenico, villaggio
di pescatori che si specchia nell’Adda. Qui sorge quello che è considerato essere il convento di
Fra’ Cristoforo.
Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo
convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato. (…) Il convento era situato (e
la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all’entrata della terra, con di mezzo la
strada che da Lecco conduce a Bergamo. (cap. IV)
Costruita nel 1576 per volere del governatore spagnolo Hurtado de Mendoza, la Chiesa in
oggetto, dedicata ai Santi Lucia e Materno, ha ospitato i Cappuccini fino al 1810, anno in cui
Napoleone decise la soppressione dell’ordine.
Dell’antica struttura conventuale restano tracce nel cortile e nel portico dove si affacciavano le
celle dei frati. Nel corso degli anni la chiesa è stata oggetto di rivisitazioni: ricordiamo a tal
proposito la facciata neoclassica , progetto dell’architetto lecchese Giuseppe Bovara
E’ proprio in relazione alla chiesetta citata che Manzoni fornisce una precisa descrizione
dell’indole e dell’aspetto di Fra’ Cristoforo, confessore di Lucia e figura di grande spiritualità
Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo
raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco,
s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e
d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli
copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore
del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità
che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta
sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un
cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in
tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.
Presso la canonica di Chiuso si concretizza la conversione dell’Innominato; la località di Chiuso
viene nominata nella prima redazione del romanzo, il Fermo e Lucia del 1822.
Questa la breve descrizione che ne fa il Manzoni:
“L’ultimo borgo collocato al confine tra il territorio di Lecco e quello di Bergamo” dove operava
una delle figure realmente esistite citate nel romanzo, passaggio poi eliminato nella versione
definitiva: si tratta di Don Serafino Morazzone, confessore di Manzoni “un uomo che avrebbe
lasciato di sé una memoria illustre” (Fermo e Lucia).
Proprio nelle stanze della canonica citata sarebbe avvenuto l’incontro tra il cardinale Federico
Borromeo e l’Innominato, momento raffigurato nell’affresco del pittore Casimiro Radice,
realizzato nel 1871 e presente nella struttura.
La visita non si può che chiudere a Vercurago dove sorge il cosiddetto castello dell’Innominato
posto a circa 180 metri sopra il livello del lago e raggiungibile a piedi attraverso un breve
sentiero panoramico. I resti del castello sono un recinto quadrangolare con una torre sbrecciata,
trasformata in cappella nel 1902. La tradizione vuole che Manzoni si fosse ispirato a questo
luogo per ambientare il castello del signorotto a cui Don Rodrigo si rivolge per il rapimento di
Lucia. La collocazione impervia e angusta , la presenza di un pendio erto e disagevole per
raggiungerlo, le strade nude e brulle che caratterizzano l’accesso al castello diventano il
simbolo della interiorità complessa e fortemente simbolica di colui di cui “non possiamo dare né
il cognome, né il nome, né un titolo …… colui che noi, grazie a quella benedetta, per non dir
altro, circospezione de’ nostri autori, saremo costretti a chiamare l’innominato.» (Cap. XIX)